III Classificato
“GRIFFON”
di CHIARA PIUNNO
Capii che era giunta la fine quando vidi quel ragazzino. Non ne divenni cosciente
subito, ma bastò che i miei occhi si posassero sulla sua figuretta perché un
brivido interferisse con il sentimento dominante che mi faceva pulsare il
cuore.
Paura.
Amore.
Paura.
Amore.
Sembrava che ogni
battito entrasse in collisione con il successivo; eppure non sarebbe dovuta
andare così. Era ingiusto: ingiusto per me, per Sùxis, per questo corpo che non
era mio, per le tre vite interrotte affinché io sola potessi vivere...
Il vento derise i miei
pensieri. Ululava giù dalla cima biforcuta dell’Orikà, un monte crudele perché
più affilato degli altri. Le Aquile sono spietate: terre aspre e avare, coperte
di neve e ghiacci in eterno. Gli dei oltre le nuvole le hanno maledette.
Nessuno del popolo di questa regione travagliata riesce a biasimarli per
questo, giacché le cime cattive delle montagne meritano il loro gelo, colpevoli
di aver trafitto il cielo.
La neve prese a cadere fitta,
vorticando con rabbia per esternare tutto il malumore degli elementi.
Vento, freddo, neve.
Non ricordavo di aver
mai visto altro.
Sùxis diceva che, oltre
le montagne, a Caliòne, il sole bacia gli uomini e le
cose con la dolcezza di un'amante. Non gli ho mai
creduto del tutto.
Ora che sono morta, non
ha più importanza nemmeno scoprirlo.
Tra breve, morirò di
nuovo.
Lo vedo scritto nel
volto di quel ragazzino, immobile da troppi istanti sotto la bufera.
Ma ancora non ci credo:
è solo una promessa insensata.
Un ragazzino non può
uccidermi, nessuno può.
Eppure, le ossa spolpate
che tentano di bucare la neve, non sembrano impensierirlo; forse, le ha appena
notate. Quei bei teschi lisci, candidi avevano sempre qualcosa da dire agli
stolti che osavano attraversare il Ponte dell'Abisso e raggiungere i miei
cancelli. Cancelli alti per chiudere tre ordini di mura come lance contorte di
giganti.
Il mio nobile nonno
diceva di averli forgiati con fiamme alimentate dai corpi di creature
sovrannaturali: l'odio e il dolore delle vittime, avrebbe tenuto lontano
qualunque nemico.
Aveva ragione.
Più di un esercito si è
infranto su quelle sbarre fatte per tagliare.
Tagliare fuori il mondo.
Mio padre la pensava
allo stesso modo.
Era pazzo.
È morto tre giorni dopo
il mio matrimonio, murato dentro la torre più alta per suo stesso ordine.
Credeva che il fatto di trafficare con spiriti e demoni gli avrebbe conferito
l'immortalità.
Mia madre, era sua
sorella; è così da generazioni.
I Griffon vogliono che
il mondo se ne stia fuori dalla loro vita, dalla loro
terra verticale, fatta di orridi e voragini, dalla loro pazzia ereditaria.
Io pensavo di essere
sfuggita: per questo sposai Sùxis. Lui veniva dal settentrione, dove il sole è un amante costante e affettuoso. Giunse qui
come tanti, in cerca di fortuna. Le miniere nel ventre dell’Orikà grondano
diamanti: chiunque può scavare. Tre parti al Signore, una a chi rischia la vita
per calarsi negli abissi dei ghiacciai. Molti muoiono. Lui no.
Ne trovò abbastanza per essere introdotto alla corte del mio nobile padre
vestito come un principe straniero; come tale si presentò, in realtà, e solo
dopo il matrimonio seppi chi era.
Ma mi importava?
Aveva perduto tre dita
nel gelo per avere la ricchezza necessaria ad avere me.
Me.
Il suo amore era caldo e
ossessivo come il sole di cui parlava.
Mio padre non mi
perdonò.
Ma non avevo fratelli
con cui unirmi. Fu un sollievo che si uccise.
Ero libera.
Che importava se il
resto della famiglia mi biasimava? Che importanza aveva se i cugini e i nobili
confinanti, con la scusa dell'offesa alle tradizioni, minacciavano di marciare
sulla rocca e fare giustizia?
Loro volevano i
diamanti: il Ponte sull'Abisso li avrebbe inghiottiti tutti.
Morte bianca.
Avrei danzato sulle loro
carcasse congelate come facevano i grifoni.
Risi al ricordo.
Amavo i ricordi: erano
la sola cosa capace di darmi una coscienza; senza, ero come una delle mie
bambole di pezza e trine. Se le scucivi, l'imbottitura fuggiva via, togliendo
loro forma.
Sì, ero proprio una
bambola.
La mia sagoma di
carne conteneva un'anima che non trovava pace.
Tutta colpa dell'amore.
Tutta colpa di Sùxis.
Anche lui credeva che bastasse mercanteggiare con gli esseri
sovrannaturali per ottenere ciò che la misera forza rayàn non
ottiene.
Sbirciai tra i vetri
piombati. Li avevo rotti per non vedere il mio riflesso.
L'immagine evanescente
del ragazzino scivolava oltre le sbarre del primo cancello. Un furetto non
avrebbe saputo fare di meglio. Il vento ululava, furioso, cercando di fargli
perdere l'equilibrio, di farlo cadere e infilzare sui rostri tesi al cielo, nei
fossati irti di punte. Neve e nebbia mi impedirono di vedere.
Qualche istante dopo
atterrava oltre il terzo.
Si muoveva come uno
spettro. Non mostrò alcuna esitazione nell'attraversare l'arco di ghiaccio e
percorrere il viale. Le statue di rapaci alte tre uomini
incombevano su di lui, giganti, ma non poterono fare nulla per fermarlo: chissà
come, quei piedi agili, avvolti da pezze congelate, evitarono i trabocchetti
nascosti dalla neve e i resti dei valorosi giunti prima di lui.
Cavalieri, santi monaci,
arditi, avventurieri, nobilotti affamati di gloria... interi eserciti giacevano
ai miei piedi, tranciati come erbe infestanti. Anche i pochi a
cui avevo concesso di arrivare nella mia dimora per sfamare Raixom,
giacevano agli angoli di pietra del palazzo sotto forma di brandelli d'ossa e
rottami di armi infrante. Molte inutilizzate: gli idioti - ahimè - dimenticano
l'effetto del gelo eterno sul metallo.
Quando il giovane
straniero fu ai piedi della scalata di ghiaccio, potei vederlo meglio.
Era poco più di un
bambino, talmente magro e sottile da muovere a pietà; un mantello logoro e un
paio di calzoni rammendati erano tutto il suo vestiario.
Ridicolo! Come poteva
essere vivo?
I nobili vicini, bramosi
dei miei diamanti, lo avevano mandato sperando di intenerirmi?
Dannati bastardi!
Decisi di ucciderlo. Con
le mie mani.
Le guardai: una era
ancora umana, l'altra si era putrefatta in primavera, quando il sole aveva
sciolto la neve per tre giorni prima della nuova bufera. Eppure, riuscivo a
muoverla lo stesso: il ghiaccio del demone la rivestiva, l'amore ossessivo di
Sùxis la irrorava, il cuore della bambina che avevo in grembo
quando sono morta lo pompava con la frenesia di un uccellino che batte
le ali.
Chiamai Raixom perché
acchiappasse quello sventurato scricciolo per me. Da tanto non bevevo sangue
umano. La colpa della morte del ragazzino sarebbe ricaduta ancora sull'avidità
dei miei amati cugini: gli dei oltre le nubi mi erano
testimoni.
Giustizia!
Ancora sentivo i loro
passi appesantiti da pellicce e cuoio e acciaio nell’atrio e lungo le scale,
mentre risalivano la torre per prenderci. La loro guerra aveva sempre sete di
nuove ricchezze, la stessa dei mercenari che assoldavano, generazione dopo
generazione, per una stupida contesa tra fratelli. E la povera, ingenua,
giovane Erede dei Griffon, tutta sola nell’Orikà con un marito straniero,
posava le sue nobili cosce su diamanti purissimi che aspettavano solo di essere
raccolti da nuove mani. Per anni, la pazzia del Vecchio Grifone aveva tenuto
lontani i corvi dal suo nido; ma quando, per beffa, aveva dato in moglie la
figlia ad un pezzente invece che a uno dei numerosi pretendenti, rifiutati con
sdegno, allora la bramosia distruttiva di quegli uomini bellicosi non aveva più
trovato scuse.
L’assedio era iniziato a
un mhète dalle nozze: il tempo necessario perché loro radunassero un
esercito, mentre quello di mio padre - corrotto dalla stessa brama di tutti -
si sfaldava.
Poi l'attesa infinita
che il gelo e gli spiriti dei ghiacci li sfiancassero,
il tradimento, le porte che si aprivano alle voglie degli assassini come le
labbra di una meretrice, il sacrificio inutile dei pochi cavalieri di grifoni
rimasti fedeli alla Casata, la fuga nell'oscurità del castello, la perdita
delle corti e delle torri l'una dopo l'altra... Il povero, fiero Yuwer, ultimo
padrone di Raixom, ci offrì di fuggire dal bastione in volo; ma la tormenta, da
amica dei Signori dei Grifoni, voltò la schiena alla nostra sorte. Il sacerdote
- quel vecchio bavoso - avrebbe detto che era la punizione degli avi, perché
giacevo con uno straniero e non con un consanguineo. La tormenta ci avrebbe
precipitati nell'abisso, o fatti morire assiderati entro il giorno... Io portavo in grembo una nuova vita...
Yuwer si offrì di
ucciderci per evitarci la cattura: i Signori delle Aquile rammentano a tutti
quale sia il valore dei prigionieri nelle loro mani.
Sùxis lo scacciò.
Difendi la porta: muraci
dentro se necessario!
Era la torre di mio
padre. Non sembrava abbandonata.
Quella notte compresi dove mio marito avesse trascorso le ore insonni,
quando credeva che stessi dormendo. Libri, candele e alambicchi... una sagoma,
rigida di gelo e morte, giaceva sotto un telo. Riconobbi la mano di una giovane
serva.
L'amore e la disperazione
della fine imminente avevano reso pazzo anche lui. Mi baciò.
Ti amo, Griffon.
Fu la mia ultima notte.
Lo stridio lamentoso di
Raixom riempì le alte volte del palazzo.
Com’era bello: forte al
pari di un drago, grande quanto un bue, zampe letali, ali possenti, becco
lustro e acuminato. Il vecchio grifone albino, reso coriaceo e segnato dalle
battaglie vinte contro i suoi simili, contro la montagna e contro i Rayènses
in trecento anni di vita, atterrò al mio fianco sollevando neve; ormai anche la
rocca ne era piena, come il palazzo di ghiaccio nelle fiabe di quand'ero
bambina.
Indicai la piccola
sagoma scura che oscillava sotto le raffiche di vento.
Bastò.
Raixom volò fuori dal rosone sfondato che ornava l'entrata grande: il
sole lo attraversava al mattino di ogni metà primavera, esattamente il giorno
del mio genetliaco. Un dono di un padre freddo come il suo regno.
Il grifone del mio
nobile antenato era addestrato bene.
Colpì, veloce e in
silenzio come le aquile.
La preda la riportò tra
le zampe in un frullio di piume e neve, il pelo arruffato, il becco aperto
nell'attesa di un mio gesto.
Accarezzai quel collo
ispido.
Certo, come sempre tre
quarti al Signore e quel che resta...
Il demone dentro di me
fiutò il calore e il sangue: avevo sete. Soprattutto, di dolore.
Il cuore di mia figlia
pulsava sempre con un piagnucolio spaventato quando
l'istinto di uccidere prendeva il sopravvento sull'amore soffocante che Sùxis
aveva donato al mio nuovo corpo.
Quello vecchio, era
rimasto impalato, blu di gelo, per quasi nove mesi sul primo cancello. Sùxis,
l'aborto di mia figlia, il vecchio Yuwer erano finiti da qualche parte oltre il
Ponte dell'Abisso.
Gentilezza di quei
Signori che credevano di aver vinto una Griffon.
La Strega dell’Orikà.
Non notarono neanche le assi
scalzate sotto cui giaceva un altro cadavere;
provarono a bruciare tutto, ma fu pietoso vederli armeggiare con il fuoco
mentre il loro piscio si solidificava per il freddo prima ancora di toccare
terra.
Il saccheggio era stato
breve: le poche scorte erano bastate appena a farli rientrare prima di morire
congelati nelle interminabili settimane di tormenta. Progettavano di tornare in
estate, con schiavi Mezzosangue a poco prezzo per fargli ripulire le interiora
della montagna da tutti i diamanti.
Erano tornati.
E ad attenderli c'ero
io.
Nove mesi di tempo per
preparare loro un benvenuto adeguato.
Il demone mi rese agile,
crudele, astuta. Immortale.
Maledissi Sùxis.
Avevo fame.
Mangiai a sazietà.
Da allora, bastò il mio
nome a tenere lontani i Rayènses intelligenti; gli idioti a caccia di
quelle pietruzze trasparenti nascosti sotto i ghiacci eterni, vennero
abbastanza di frequente per placare le mie voglie.
Le voglie del demone.
Ma nell'ultimo anno, il
raccolto è gradualmente aumentato; una nuova guerra, forse, che chiede altra
ricchezza da depredare. Che idiozia dare valore alla pietra: sarà ancora là quando chi la possiede è spolpato dai vermi. La vita...
quella si che è unica, insostituibile...
Breve.
Mi accovacciai tra le
zampe del grifone. Erano sporche di sangue. Il fagotto scheletrico del ragazzo
non si muoveva. Picchiai Raixom per fargli sfilare gli artigli da quel petto
giovane, ancora glabro, quindi trascinai il corpo al centro della Sala del
Mattino: era sempre la più calda. Il sangue non sarebbe ghiacciato subito. Il
demone, in preda alla frenesia, mi disse di spacciarlo subito, ma io esitavo.
La mia bambina avrebbe
avuto la sua età se fosse nata.
Ah, sì! Chiunque
l'avesse mandato, era stato bravo nella scelta: mi stavo intenerendo, con gran
disappunto del demone. Certa di essere mira di una trappola ben congegnata,
lasciai il mio pasto per correre alla porta: fuori ululava ancora la bufera.
Non fiutavo altre vite.
Tornai a voltarmi.
Il ragazzino non c'era
più.
Raixom, accovacciato sui
resti ghiacciati di un antico tavolo, la grossa testa poggiata sulle zampe in
fedele attesa, non sembrava essersi accorto di niente. Scattò, soffiando, solo quando ululai di disappunto.
Dov'era?
La deserta Sala del
Mattino, con tutta la sua gloria decaduta, iniziò a vorticare
mentre mi rigiravo furiosamente.
Come briciole, gocce di
sangue indicarono il sentiero.
Lo inseguii.
Sembrava un gioco.
Le grandi voragini dei
camini, in disuso da anni, riecheggiavano delle voci divertite del vento, dei
miei passi concitati, dei suoi appena trascorsi. Era veloce: un dannatissimo,
piccolo falco in volo radente.
Fu la paura, non
l'istinto di uccidere a montare in me: io ero posseduta, dannata.
Quel ragazzino, no.
E mi stava sfuggendo.
Lui era un mostro.
Quando ritornai davanti
alle grandi scale della Sala del Mattino, con i corrimano
in granito resi cangianti dal ghiaccio tintinnante, mi fermai gridando tutto il
mio disappunto.
Turbato dalla mia
collera, dalla sfacciataggine della preda, dall'odore acuto del sangue, Raixom
volò per appollaiarsi sulle balaustre che correvano appena sotto le volte. Il
suo verso lamentoso mi riportò alla calma.
Chiamai lo straniero. E
attesi.
Affiorò senza un suono
da una pozza d'ombra; i capelli neri gli ricadevano sul volto, la pelle bianca
come neve sembrava lino dai ricami scarlatti. Delle profonde ferite infertegli
dal grifone restava poco più di un segno rosato. Trascinava una spada simile a
ossidiana, troppo lunga per il suo braccio. Aveva sì e no tredici anni; forse
anche meno. La sua espressione, se c´era sotto il manto arruffato dei capelli
color corvo, non trasmetteva nulla.
Indifferente.
Come la morte.
Fu allora che compresi
l’imminenza della fine: la Nera Signora aveva mandato suo figlio a prendere la
preda che l’amore malato di Sùxis le aveva sottratto anni prima.
Urlai come il vento
della bufera. Non volevo morire! Malgrado fossi un mostro, malgrado avessi
perduto ogni cosa, malgrado l’orrore di cui ero fatta,
volevo vivere!
L’amore che mio marito
aveva dato in pasto al demone per attirarlo e convincerlo a restare nel corpo
morto dove avrebbe incastonato la mia anima, bruciò nelle vene secche.
Attaccai.
Raixom, udito il
richiamo, fu subito al mio fianco, ma stavolta i suoi artigli, flagello di
migliaia di vite, si chiusero sul vuoto. Il ragazzino svanì, come fumo sospinto dal vento: solo il demone che era in me fu in
grado di seguire la scia nera del mantello che vorticava dietro il suo scatto,
l’onda lucida di capelli che frullarono come piume di corvo. Era in aria, poi
toccava il pavimento crepato dal gelo, quindi il punto opposto. Chiunque fosse, non era ràyan. Non era umano.
Raixom soffiò di dolore:
l’ala destra rimbalzò a terra accompagnata da un’aureola di sangue.
Schizzò anche me,
accecandomi.
Un istante dopo, a
colpirmi fu la testa del grifone: la riconobbi al tatto, dalla massa soffice di
peli che, malgrado l’età, crescevano ancora rigogliosi
ai lati del becco.
Stavolta, non riuscii a
gridare.
Raixom non c’era più.
La morte aveva preso
anche lui.
Ero sola.
Se fosse stato in mio
potere, in quell’istante avrei chiesto al demone del ghiaccio di seppellire
l’intero palazzo in una muraglia impenetrabile: il vento stesso sarebbe
scomparso, congelato tra le gole taglienti e senza fondo. Ma io ero solo
un’anima imprigionata in un contenitore putrefatto.
Rimasi immobile.
Il ragazzino incombeva
dietro di me: fiutavo il suo respiro caldo.
L’odio, in me, soffocò
l’amore spettrale di Sùxis.
Il demone si divincolò.
«Io ti maledico».
Lo dissi: le parole non
sono solo aria.
Il ragazzino non alterò
neanche il respiro.
Non replicò niente.
Uccise la Strega
dell’Orikà. E stavolta per sempre.
Di quell’impresa,
parlano ancor oggi molte ballate e io le ascolto, dalla mia nicchia di legno
caldo e profumato. Sùxis mi uccise per salvarmi, e intrappolò la mia anima
nella pietra stupenda che trovò nel ventre della montagna, la stessa che usò
per comprarmi in matrimonio: un diamante rosso, grande come un pomo. Appaël,
"mela" fu chiamato.
Divisa a metà, ora
quella gemma unica adorna le orbite vuote della Madre, dea del Fuoco, della
Luce e della Vita. Il Santuario a lei dedicato, è un’oasi mistica di calore e
bellezza nel cuore gelido delle montagna. Ed io, nata
e cresciuta nell’inverno eterno, ora vivo là. Sì, vivo: sono dovuta morire due
volte per iniziare a vivere davvero. La prima con Sùxis; la seconda con quel
fanciullo di cui ormai conosco nome e gesta, ma non le narrerò qui.
La mia anima canta i
salmi dolci dei monaci, accompagna i riti sacri dei loro accoppiamenti rituali
con pie donne giunte da ogni luogo di Eterna, consola le ansie di chi è privata
dei figli, incoraggia gli sforzi delle partorienti che vengono a deporsi
sull’altare per offrire i neonati maschi alle cure del tempio, ascolta i voti
di amanti sofferenti, beve le lacrime di chi non può generare, accetta le
offerte sincere, disdegna quelle degli empi... La vita
è un dono: non va estorta. Lo grido dalla mia gabbia di cristallo
preziosissimo. La vita è calore: va coltivata. Per questo scintillano gli occhi
della Madre ogni anno, a metà primavera, quando il sole colpisce il suo manto
ligneo in processione. La vita è amore: solo così dura in eterno.
Ora lo so, e il mostro
che ero non nasceva dall’abominio compiuto da chi diceva di amarmi, ma dal
rancore, dalla sete di vendetta, dai ricordi marci, dall’odio verso un mondo
che mi aveva abbandonata da sola in cima a quella montagna... come se non fosse
stata una mia scelta rimanerci.
Non l’ho capito finché
non è giunto un ragazzino Mezzosangue a liberarmi.
Ballonzolando nelle
vesti logore, a contatto con la sua pelle calda, sono discesa dalla mia
prigione.
La gabbia che mi ero
creata.
La mia morte ha sfamato
lui e il Vecchio di cui era schiavo per l’intero inverno, quindi il mercante
che mi ha portato alla corte di un nobile, il quale mi ha donato alla Madre per
ringraziarla della vita di suo figlio.
Dopo anni e anni,
cullata dal calore del Santuario e dal profumo degli incensi, finalmente mi
pento di averlo maledetto. Non ne avevo il diritto: lui lo era già.
Un mostro mandato a
distruggere un altro mostro, come aveva commentato il Vecchio che lo
addestrava. Intrappolato come me dall’odio.
Prego ogni giorno la
Madre per lui.
E qualora in futuro,
quel ragazzino, diventato uomo, dovesse giungere fin qui, allora io supplicherò
la dea di rompere quella maledizione e di liberarlo, come lui ha fatto a me.
Perché - malgrado il mondo - la vita di ognuno è ciò che ognuno
decide di essere.
FINE